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I caratteri che la scienza ha individuato per distinguere l'uomo dagli altri animali sono i più svariati, dal linguaggio articolato al "desiderio di assumere farmaci" (come ebbe a scrivere con autoironia un grande medico, William Osler). La religiosità antropologica sarebbe uno di questi, un vero e proprio tratto distintivo, frutto del legame tra libertà personale e tolleranza interpersonale nato da un senso profondo della dignità dell'uomo. Giorgio Cosmacini sostiene in queste pagine la ferma convinzione che la professione medica, più di ogni altra sfera dell'agire umano, si richiami per propria natura a un radicato senso di religiosità laica: il 'saper essere medico' non può prescindere da una valorizzazione assoluta del rapporto tra soggetto sofferente e soggetto curante, e nasce sempre da un'etica della dignità e della tolleranza. Il 'buon medico' è tale indipendentemente o a dispetto della confessione religiosa che abbraccia: cattolico, ebraico, islamico, agnostico, ateo, egli è comunque votato prima di tutto alla propria missione di guarigione. Come ha agito, nei secoli, questa concezione del mandato di medico sullo sviluppo della scienza e della pratica clinica?